POLITICAMENTE SCORRETTO (ovvero: Razzista a sua insaputa)

Sta tutto lì, sapete: trovare un “concept”.

Un tempo, neanche tanto lontano – visto che, pur non avendo ancora concluso neppure la mia prima vita, me ne ricordo benissimo – il lavoro del regista d’opera consisteva nel mettere in scena un testo, formato dall’unità di musica e libretto. Adesso non più. Appena incaricato di una regia, il moderno gggenio per prima cosa si preoccupa di come cambiare (anzi, possibilmente, stravolgere) a modo suo tutto ciò che gli autori hanno scritto, tranne – almeno fino ad ora, se non in casi limitati – la musica. E se il vostro Mannaro, uscito dal suo ritiro (e non si sa ancora se solo provvisoriamente) nutre il dubbio che il motivo di tale “rispetto” sia che è molto più difficile scrivere la musica di un’opera che non pasticciare con la trama, è perché a pensare male si fa peccato, ma è quasi sicuro che ci si azzecca.

Questa la visione complessiva della scena, ripresa durante la scena delle armi

E così, messa da parte la musica (certi registi si portano dietro lo spartito, alcuni probabilmente sanno perfino leggerlo, ma i più non se ne curano né poco, né tanto), il primo punto all’ordine del giorno è cercare un’ispirazione. E, nel caso che andremo ad esaminare – l’Aida al Macerata Opera Festival – abbiamo la fortuna (per così dire) di sapere quasi con certezza che cosa, esattamente, ha fatto scattare la scintilla nella mente della regista, Valentina Carrasco (segnate e sottolineate almeno tre volte), prodotto delle “cantera” catalana de La Fura dels Baus – che, per chi non lo sapesse, equivale a dire Calixto Bieito & C. E basta la parola…

Fino dalla conferenza stampa di presentazione dello spettacolo, la signora Carrasco aveva lanciato segnali decisamente inquietanti, per un gatto dall’istinto sveglio (come ogni gatto che si rispetti…). Senza dire mai nulla che rivelasse il suo progetto, la regista, in quell’occasione, insistette in modo assai sospetto su certi reperti d’epoca, manifesti dell’Aida del 1921, nei quali l’aveva colpita moltissimo la pubblicità della Shell. È da lì che dev’essere nato tutto… per una serie di processi mentali palesemente così contorti che l’animo semplice di un povero gatto non può neppure provare a immaginarli..

Le eleganti dame di corte di Amneris, protette dai soldati (o sono poliziotti?) durante il picnic nel deserto

Sta di fatto che, dimenticati completamente l’Egitto, gli Egizi, gli Etiopi, e tutte quelle inutili, noiose, antiquate stupidaggini scritte da Ghislanzoni, la signora Carrasco ha cominciato a farneticare di colonialismo, imperialismo, oro nero e quant’altro, e – detto fatto – ha trasferito Aida in un periodo non bene identificato fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, come si desume dai costumi, molto ammirati, che Silvia Aymonino ha disegnato, in particolare, per Amneris e la sua corte. Quanto agli Etiopi (o meglio ai non Etiopi, poiché gli Egizi diventano un non meglio identificato esercito di occupazione, mentre gli Etiopi sono nativi assai poco civilizzati e palesemente sfruttati), i loro costumi, coloratissimi, sono di pura fantasia e ricordano anche troppo da vicino quelli che potrebbero indossare gli zingari in una produzione “tradizionale” de Il trovatore (o anche, in certi casi, un numero dei clown al circo).

Qui vedete qualcosa dei costumi dei nativi, mentre si azzuffano per il cibo, prima rubato, poi distribuito al picnic.
Qui, invece, i balli sui barili rotolanti
Così vedete meglio

In tutto ciò, come potete immaginare se non avete ancora visto il video, o come sapete già benissimo se lo avete visto (in calce trovate il link e ve lo potrete godere in lungo e in largo), di Aida (quella di Verdi) non rimane assolutamente nulla. Di Radamès non si capisce neppure quale sia la professione, poiché, all’inizio, lo vediamo aggirarsi, in abiti borghesi, fra le dune, munito di un binocolo con cui scruta ripetutamente l’orizzonte, una mappa arrotolata sotto il braccio e una borraccia. Tuttavia non dev’essersi poi tanto inoltrato nel deserto, visto che da lì a poco arriva Amneris, elegantissima, con tanto di ombrellino, seguita dalla servetta Aida, munita di grembiule, che porta bevande e, faticosamente, una sacca da golf piena di mazze.

Una sacca da golf?, direte voi, non credendo ai vostri occhi. Ebbene sì. Poiché alle stupidaggini dei registi gggeniali non c’è mai fine, Amneris va nel deserto a giocare a golf fra le dune (oltre che, ovviamente, a fare la posta a Radamès). Il quale, da esploratore/turista, si ritrova da un momento all’altro generale pluridecorato, a cui è affidato, con un’apposita cerimonia – neanche un regista gggeniale si permette, per ora, di tagliare via intere scene dell’opera – il comando di una guerra che evidentemente non ci sarà, poiché non c’è un esercito etiope da combattere, e di conseguenza non ci saranno prigionieri da trarre innanzi al re.

Ma queste, s’intende, nella mente della regista sono minuzie, dettagli trascurabili, pinzillacchere, direbbe Totò. Le basta trasformare la scena del trionfo nella costruzione della sua creatura prediletta, l’oleodotto (una serie di monumentali costruzioni di tubi, montati a caso, secondo l’opinione di un professionista da me consultato… ma questo sarebbe davvero il minore dei mali!), e il gioco è fatto.

Resta il problema di dove trovare i prigionieri, poiché senza quelli l’opera non può andare avanti. E allora, i poco civilizzati nativi, a quanto pare sfruttati come operai (ma i balli, coloratissimi, movimentati, esteticamente godibili se accettati come coreografie del tutto slegate dal contesto dell’opera, sembrano piuttosto suggerire un’atmosfera di allegria e divertimento – tipo “Sette spose per sette fratelli”), a un certo punto inscenano una ribellione, capeggiata, si capisce, da Amonasro e prontamente repressa dai soldati occupanti, che ne ammazzano pure uno di botte. Ed ecco trovati i prigionieri di cui Radamès, giunto non si sa da dove, poiché se non c’è un esercito nemico non c’è nemmeno una guerra, prenderà le difese.

Eccoli, i prigionieri: gli “indigeni” ribelli, pestati e arrestati

Da quel momento, l’oleodotto (o per essere precisi, quella che potrebbe, ostinandosi a voler usare la logica – concetto del tutto estraneo alla mente della regista – essere intepretata come la stazione di pompaggio) diventa protagonista assoluto della scena. E, secondo l’immortale formulazione di Ruggiero Leoncavallo, “il pubblico (ma soprattutto la critica, Nota di Mannaro) applaude ridendo allegramente”. C’è perfino – giusto per toccare il fondo – chi dichiara e scrive di essersi “divertito”.

Qui, in campo lungo, potete godere della vista complessiva dell’oleodotto

Non ha alcuna importanza che questa tremenda “cosa”  a cui stiamo assistendo non abbia assolutamente nulla in comune con l’Aida di Verdi. Basta che i “camini”, gli sfiati, o quel che siano, dell’oleodotto si accendano un paio di volte di suggestive fiamme, illuminando la notte maceratese, e subito ci si dimentica di chiedersi che senso ha che un Radamès del Ventesimo secolo interroghi uno strano sacerdote di non si sa che culto sulle decisioni della “sacra Iside”. Non ci si chiede perché l’inizio del Secondo Atto rappresenti un picnic nel deserto in cui dame elegantissime si divertono a lanciare salsicce ai “poveri indigeni” che si azzuffano per raccoglierle, e perché Amneris indossi una voluminosa stola di volpe, certo più adatta ad altri climi. Non si mettono in discussione i fagotti simili a mummie che rotolano giù dalle dune, per poi diventare ballerini avvolti da veli (qualcuno, certo veggente, poiché non ci sono prove a suffragio, ha parlato di “spiriti del deserto”). Non ci si interroga sul perché la scena del Nilo, dove ovviamente non c’è Nilo, avvenga nel solito oleodotto, buono a tutti gli usi (inutilmente minato dai seguaci di Amonasro con numerosi candelotti di dinamite completi di detonatori). Non ci si chiede perché Amneris lanci un urlo all’inizio della sua scena del Quarto atto (sentendolo alla radio molti hanno pensato che fosse avvenuto un incidente fuori scena) e poi, cercando di raggiungere Radamès imprigionato, si scagli contro il soldato di guardia, venendo da lui respinta e malmenata, quando, poco dopo, le basta dare un ordine per farsi portare lì il detenuto. Peggio ancora, non ci si domanda il motivo della inedita sentenza che condanna Radamès a morire sotto una colata di petrolio (ma già, abolita “l’ara del Nume sdegnato”, in qualche modo lo si doveva pur ammazzare…)

Delle salsicce (che vedete in basso a destra, lanciate da due cameriere di ciò incaricate), non posso proprio privarvi
Se non lo aveste capito, questi sono i fagotti

Basta, non ho più voglia di elencare stupidaggini. Chi lo desidera può guardare il video e comporre una propria lista. C’è solo l’imbarazzo della scelta, se ne trova una ogni momento (a proposito, se non lo sapevate vi informo che Amneris si suicida tagliandosi le vene…).

Amneris suicida

Ma c’è un pensiero perfidamente Mannaro che mi stuzzica, e che voglio confidarvi. Ed è che, per come la vedo io, questa regia è sottilmente razzista. E adesso vi spiego il motivo, precisando che non penso affatto che questa fosse l’intenzione della regista, ma solo l’ennesima stupidaggine di una collezione infinita di trovate estemporanee, nella totale latitanza di un filo conduttore logico che, una volta fatto a pezzi quello originale dell’Aida di Verdi, si frammenta in una serie di elementi slegati, all’apparenza buttati dentro a caso, così, giusto pensando: “Ah, dai, mettiamoci anche questo”.

Ecco qui il mio perverso, mannaro pensiero. Come sappiamo, nell’Aida di Verdi – checché ne possa dire qualche fanatico del “politicamente corretto”  – non c’è traccia di razzismo. Gli Egizi e gli Etiopi sono rappresentati come due popoli confinanti in conflitto fra loro, ma hanno esattamente pari dignità. Gli Etiopi non sono dei selvaggi, hanno evidentemente case, templi e città. Se, tradizionalmente, hanno la pelle scura perché nati più a sud degli egiziani, questo non viene mai rappresentato come un’inferiorità, ma solo come una differenza. Ma la signora Carrasco, per la sua personale “visione” della trama, ha bisogno di cambiare drasticamente tutto questo. Ci rappresenta i “nativi” come un popolo inferiore, primitivo rispetto agli occupanti “civilizzati” (e sprezzanti). La scena della zuffa per il cibo rubato e del lancio delle salsicce lo evidenzia con totale chiarezza. E questo il vostro Mannaro lo trova offensivo, mortificante verso il popolo immaginato da Verdi. Una vena di “razzismo a sua insaputa” che si insinua nel concept della signora Carrasco come una Nemesi. E ben le sta.

Con questa conclusione si congeda da voi, per il momento, il vostro Mannaro. Non ho voluto dilungarmi troppo, ma, a margine di questa esperienza, fatta direttamente dal vivo e poi apporofondita nel video in streaming (peraltro ottimamente montato), ho alcune cose più generali da dirvi sullo “stato dell’arte”, sulla sempre più triste situazione in cui versa l’opera lirica, che voglio approfondire prossimamente.

A giorni, quindi, un’altra miagolata. Per il momento, i sempre affettuosissimi saluti del vostro

Mannaro

Qui il video (accesso gratis per 14 giorni, previa registrazione)

https://www.cuetv.online/opera-aida-g-verdi-macerata-opera-festival-2021/videos/opera-aida-g-verdi-macerata-opera-festival-2021

Le immagini sono, come avete visto, fotogrammi tratti dalla diretta streaming di CUEtv, poiché non ho trovato foto ufficiali che illustrassero a sufficienza ciò che volevo dirvi (capita spesso che le foto ufficiali pubblicate siano le meno significative, dal mio punto di vista…)

Doverosamente cito i cantanti che vi compaiono: Maria Teresa Leva AIDA, Veronica Simeoni AMNERIS, Luciano Ganci RADAMES, Alessio Cacciamani RAMFIS, Fabrizio Beggi IL RE, Maritina Tampakopoulous UNA SACERDOTESSA, Francesco Fortes UN MESSAGGERO.

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1 Commento

  1. dascola

     /  27/11/2021

    Gattu, bastava che tu lasciassi la foto della Carrasco per far capire: è una tagliatrice di gole; non saprei dire se lo sa. Grazie per il like. P.

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